IV DOMENICA DI QUARESIMA
Gs 5,9a. 10-12; Sal 33; 2 Cor 5, 17-21; Lc 15, 1-3. 11-32
Capire Dio e il suo cuore
Siamo messi alla prova da questa grande parabola, che vuole condurci a capire Dio e il suo cuore. Essa fu narrata da Gesù in mezzo alla mormorazione di coloro che lo stavano tentando, uomini dal cuore gelido, che respingevano la sua bontà. È molto difficile parlare a chi ha questo atteggiamento, e Gesù con questo racconto ha evidenziato una realtà che vale per tutti i tempi: in questo duro mondo, uno che ama c’è, ed è Dio.
Non fatichiamo a riconoscerlo e a identificarci nei personaggi della parabola, che continuamente passa dal piano narrativo a quello teologico, e non riguarda soltanto un caso specifico o un perdono, ma vuole fare riflettere sulla condizione umana.
Il protagonista è un uomo che aveva due figli. Siamo quindi in una famiglia, o quel che parrebbe una famiglia. Il padre è un vero padre, mentre l’identità di figli sembra non essere maturata in loro: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta” dice uno, e l’altro: “Io ti servo da tanti anni … e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici”.
È freddo il rapporto dei due figli verso il padre: uno lo vede soltanto come colui che può dargli tutto per andarsene e l’altro come un uomo ingiusto. Sono dunque, figli, dal punto di vista sociale e patrimoniale, ma non hanno maturato la comprensione del padre. Fuor di parabola, sono l’uomo ignaro che quando il padre è Dio, Egli è il segreto della vita dell’uomo: un amore che regge tutta l’esistenza. Questo tipo d’amore è alle radici della vita, comincia con la nostra infanzia e diventa un punto di riferimento pieno, dà senso, ispira fiducia, anzi, chiarezza; è amore che crea senso di appartenenza, di tradizione, di gioia, di casa. Senza questo sentimento fondamentale nessun uomo scopre il proprio cuore: gli rimane dentro un nucleo gelido e sarà costretto a costruirsi un mondo superficiale, fatto di tante altre relazioni; la parte più interna di sé, però, resterà disabitata o, peggio, si riempirà di mille cose, che non lo aiuteranno a diventare il figlio che è, il figlio di Dio.
Noi abbiamo ricevuto il Battesimo, quindi, da quel momento, siamo figli di Dio: ma è proprio questo il rapporto d’amore che fonda l’esistenza dei battezzati? E’ la grande domanda che dobbiamo fare a noi stessi e che la Chiesa si pone: siamo un popolo di figli di Dio?
Nella famiglia della parabola, l’unico che ha realizzato se stesso è il padre, il quale dimostra di essere un uomo che ama. Ama perché dà quando gli è chiesto, perché non si rassegna alla lontananza e continua a guardare l’orizzonte della possibilità: “Chissà se tornerà?”. Ama perché, quando l’evento del ritorno si compie, non si trattiene: ricrea l’incontro, corre verso il figlio, abbrevia la distanza, poi onora come se fosse il tesoro della sua vita, questo, umanamente parlando, indegno figlio; lo festeggia, lo fa diventare il centro della casa, perché lui, il padre, lo ama.
Questo personaggio, che è Dio, emerge in mezzo al nostro squallore: siamo poveri uomini e povere donne, che forse devono ancora capire che credere è dare il cuore a Dio, come Lui dà il suo cuore a noi.
Il figlio, che ci rappresenta un po’ tutti, non motiva il suo ritorno con l’amore, infatti non ha ancora capito. Pensa soltanto che a casa almeno potrebbe avere da mangiare, fare il servo (non siamo evidentemente nel clima dell’amore): “…andrò da mio padre e gli dirò: -…non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni -”. Ma il padre non gli lascia finire questa frase programmata per il ritorno, tronca il discorso, lo abbraccia e lo esalta come figlio, perché la paternità è amore. Che fatica, per questo ragazzo, scoprire che suo padre è un cuore così! E poi che scoperta mirabile, felicitante!
La nostra strada è questa. Infatti, se non riconosciamo che l’amore di Dio è il fondamento della nostra identità, che quello che siamo prima di tutto consiste nell’amare Colui che ci ama, siamo condannati a costruirci delle personalità apparenti. Queste possono anche essere molto serie, molto importanti, ma sono fatte di piccole cose in confronto all’amore di Dio, per il quale siamo stati creati. E questo vale non solo per chi si riduce alla condizione di guardiano dei porci, ma riguarda tutti, anche gli uomini socialmente più importanti, più rispettati: se non hanno come fondamento l’amore profondo dell’Essere creante, sono delle strutture provvisorie, vivono al di sotto delle loro possibilità, non fanno quasi niente di veramente importante per Lui.
Soltanto l’amore costruisce veramente. E, se si ama poco, si realizza poco, ci si ferma subito davanti all’altro. Noi ammiriamo i grandi personaggi, gli uomini di cultura, ma se il loro cuore è gelido, accadono eventi drammatici. Ad esempio, globalizziamo l’economia, ma, nello stesso tempo, globalizziamo la povertà e la morte per fame. Allora a che cosa serve essere pieni di tecnica, di scienza, di capacità, se il proprio fratello, di cui non ci si vuole accorgere, muore di fame?
Se non diventiamo capaci di amare, siamo profondamente sciagurati e nessuno ci salverà da questa sventura. Strutture, idee, ideologie…: in apparenza è un susseguirsi di cambiamenti, ma, se il cuore rimane gelido, nel grande o nel piccolo, nulla cambia.
La parabola, quindi, non è soltanto la storia di un perdono, ma di un rapporto d’amore profondo: se questo c’è, tutto si risolve, perché è il padre che si muove, che abbraccia il figlio. La tragedia umana diventa un dramma a lietissimo fine, perché il padre ama. E ama gente che non lo corrisponde, che non ha cuore.
Il Signore è venuto per noi, che siamo così, non ha aspettato di trovarci buoni, e questo è molto consolante. Abbiamo un Padre che ci conosce fino in fondo, che ci dice ciò che noi non avremmo il coraggio di dirci. E lo fa con amore, come il padre della parabola si rivolge all’altro figlio, dicendogli: “Abbi pazienza, non dovevo far festa? Vuoi che non abbia cuore?”.
Dinanzi a questi insegnamenti di Gesù dobbiamo riflettere e diventare pieni di preghiera, perché il mondo di oggi è ricco di personalità apparenti, e patisce della grandissima carestia di bontà. Noi, però, che ci rendiamo conto di questa situazione, dobbiamo pregare affinché l’umanità incontri un tempo diverso e nuovo, a cominciare dalla nostra piccola quotidianità.
Anche Paolo, quando, assumendo l’incarico di parlare in nome di Dio, da ambasciatore di Gesù, esorta con forza, non trova parole più grandi di queste: “Fratelli, …vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Questo Dio manda suo Figlio e non viene a imporre, ma chiede: “Ti supplico, lasciati riconciliare”. È lo stesso clima della parabola.
Dobbiamo supplicare Dio, perché uomini e donne dal cuore di ghiaccio, che pure portano in sé un enorme bisogno di riempire il loro vuoto interiore, accettino questa umilissima richiesta dell’Onnipotente: “Non ti faccio male, non avere paura, accetta il mio perdono, accetta il fatto di dover essere perdonato. Non ti offendere per questo, non avere paura di me”.
Di tutti i mille problemi della nostra storia, l’unico, insorpassabile, è questo: il suo rapporto con la divina misericordia. Tutto dipende dal fatto che la storia umana riaccetti la Misericordia, perché c’è Uno che ama, che guarda se torniamo da Lui: è il Dio che ci corre incontro. Noi lo sappiamo per esperienza, perché ci ha perdonati tante volte.
Chiedete a Dio, il Padre, che il perdono, che avete ricevuto e continuerete a ricevere, possa darlo anche ad altri. Chiedete che molti si arrendano alla divina misericordia, lascino che Dio li salvi: il futuro, e non solo per noi, dovrà colmarsi di misericordia. Non è un’utopia, né un sogno, né un sospiro: è vero così, ma com’è bello che lo sia, perché, se questa è volontà di Dio, chi può fermarla?