III DOMENICA  DI  QUARESIMA

Es 3, 1-8a. 13-15; Sal 102; 1 Cor 10, 1-6. 10-12; Lc 13, 1-9

La responsabilità nei confronti di Dio

Questa pagina di Vangelo evoca nella nostra mente e nella nostra coscienza un concetto fondamentale per la vita di tutti e, ancora di più, per l’esperienza del rapporto con Dio: il concetto della responsabilità. Il messaggio della parabola del fico sterile è evidente in proposito.

Per collocarci in questo discorso estremamente serio di Gesù, che pure è traboccante d’amore, teniamo conto del fatto che siamo eredi di una cultura europea la quale, a poco a poco, si è del tutto deresponsabilizzata nei riguardi di Dio. Siamo, dunque, come al fondo di una discesa da risalire e la nostra non sarebbe una posizione favorevole se non avessimo per noi ancora una volta la mano di Dio che si tende, perché Dio ci ama.

In ogni caso siamo in una condizione grave. Responsabilità è una parola suprema, quella che forse più di tutte descrive la dignità di una persona, e anche di una comunità di persone. Infatti il suo concetto richiama quello della libertà. Ciascuno di noi porta in sé il potere di determinarsi, di essere chi vuole o non essere chi non vuole e, malgrado la presenza di molti condizionamenti e limiti, è innegabile che abbiamo la facoltà di riferire a noi stessi ciò che vogliamo. Pensiamo a quante cose belle, buone, vantaggiose una persona può giustamente riferire a sé, ossia non ci sarebbero, se non le avesse fatte, pensate, volute. È bella la responsabilità positiva e porta con sé meritata gloria, fama, successo, retribuzione: realtà comunissima tra di noi.

La libertà, però, ha anche un altro aspetto: non sarebbe certo onesto, anche se spesso cerchiamo di farlo, volerci attribuire soltanto ciò che è buono e gratificante sottraendoci alle nostre responsabilità, quando si tratta di qualcosa di cattivo. La libertà riguarda ogni situazione. Dobbiamo avere il coraggio di dire: “Sono stato io” anche rispetto a ciò che abbiamo deciso, fatto, causato ed è risultato non positivo per noi e per gli altri.

E’ difficile ammetterlo, tendiamo tutti a evitare le responsabilità negative. Questo è un segno che siamo creati per il bene e non per il male. Rimane vero, però, che il nostro vivere è un gioco di queste libertà, perché, se io sono causa di tante cose e tu anche, e siamo fianco a fianco, dobbiamo far coesistere queste capacità ricche e belle, ma anche pericolose, nella maniera più vivibile che si possa. Allora si realizza il pratico liberalismo positivo: io ti rispetto e tu mi rispetti. Si può anzi persino ipotizzare che le nostre libertà si mettano in gara: da una competizione possono nascere molti risultati positivi nella storia degli uomini.

Ed ecco a questo proposito una riflessione di coscienza: il nostro è un tempo che acuisce fino all’ossessione la ricerca dei responsabili nella vita sociale, perché si vive nella paura. Si verifica, però, un paradosso: mentre riconosciamo tutte le responsabilità storiche che possiamo avere, contemporaneamente abbiamo portato quasi a zero le responsabilità teologiche, quelle verso Dio; di fronte a Lui è come se non si ritenesse responsabile quasi nessuno. Questo è un collasso della nostra civiltà ed è un atteggiamento di stoltezza; infatti se essere responsabili verso l’altro è giusto, perché evitare di esserlo verso l’Altro, il cui nome è Dio?

Inoltre nei suoi confronti non vi è solo una questione di responsabilità, ma molto di più:  ognuno di noi deve dire: “Dio mi ha tratto fuori dal suo essere, sono di Lui e sono anche per Lui. La mia capacità di determinarmi, di decidere chi sarò, mi è stata data, prima di tutto, per stabilire che io sarò con Lui, sarò di Lui, sarò in Lui. Dio è il senso del mio essere qui, non ne ho nessun altro. Allora, di fronte a Lui è ancora troppo poco che io riconosca di dover rendere conto delle mie azioni. La mia libertà è per Lui ed è a Lui che deve, che vuole giungere, altrimenti annaspo e annego nel nulla”.

Dio è infatti il termine della nostra libertà totale. E con Dio non possiamo soltanto assumere un atteggiamento liberale: tu rispetti me e io rispetto te; con Dio è diverso, sentiamo che la nostra risposta dev’essere appassionatamente piena.

E’ questa la tortuosità della nostra cultura. Dobbiamo infatti domandarci: “Se la nostra condizione dal punto di vista ontologico, dell’essere, è questa, come mai non siamo più disposti a riconoscerla?”.

La risposta non è difficile, il nostro cuore ce la suggerisce: purtroppo nascondiamo in noi anche la paura di Dio, il timore d’incontrarci con Lui. Di conseguenza, abbiamo rovesciato abilmente la situazione dicendo: “Non sono io responsabile di fronte a te, Dio, sei Tu  responsabile di fronte a me. Dov’eri ad Auschwitz? Dove sei quando capitano gli eventi drammatici della nostra storia? Parliamone e, se ti assolvo, riprenderemo la nostra intesa”.

È temerario l’uomo che parla così: non siamo neppure capaci di essere giusti con i nostri simili, anzi, ci macchiamo di atroci ingiustizie, eppure osiamo farci giudici di Dio. Dimentichiamo che Dio non ha la nostra statura, che la storia è momento penultimo, non ultimo, che siamo finiti, mentre Lui è infinito; dimentichiamo che Dio sa e noi non sappiamo, che Egli è capace di ricreare un’esistenza, di far rivivere le ossa infrante. Non ricordiamo più niente di tutto questo, cancelliamo la realtà di Dio, poi al suo nome, che è rimasto ormai quasi privo di significato, possiamo anche dire: “Rendi conto!”.

Ma quale Dio sarebbe questo, se potessimo risolvere così facilmente il rapporto con Lui? No, per noi è necessaria la profonda umiltà di renderci conto che Dio è Dio.

La Parola di oggi ci è di grande aiuto, perché questo Dio, al quale dobbiamo rispondere, non è un giudice, a cui nessuno di noi oserebbe presentarsi da imputato colpevole, ma un Padre che conosce la nostra situazione: “Non avere paura di me, so che sei colpevole, ma non potevo chiedere conto a te dei tuoi peccati, per questo ho chiesto a mio Figlio: – Ti vuoi fare uomo come loro? -. – Sì, Padre -. – Ti vuoi caricare dei loro peccati? -. – Sì, Padre -. – A qualunque costo? -. – A qualunque costo -. Ho fatto ricadere su mio Figlio, che era d’accordo, perché noi ti amiamo, tutto quello che pesava su di te. È pagato, non avere paura, lascia soltanto che adesso ti accompagni e smetti di agire da solo”.

E’ questo Dio accompagnatore dell’uomo a chiederci se accettiamo di camminare di nuovo con Lui. Egli ripropone a noi, poveri uomini e povere donne di oggi, che non sappiamo vivere e aiutarci l’un l’altro: “Lasciate che cammini con voi!”.

Non abbiate paura di questo accompagnatore, permettetegli di purificarvi il cuore, se ne avete bisogno, diventerete più felici. Ecco la responsabilità: “Tu, Dio, mi chiami con amore e io non risponderei? No, Signore, sarei l’uomo più folle del mondo se mi comportassi così. Tu ci chiami con amore, perché vedi che stiamo andando in ogni direzione senza orientamento; abbiamo perso il senso della storia, della creazione: è pessimista la società. Allora ti chiediamo che torni ad accompagnarci, che si compia una nuova teofania: – Compari di nuovo! – ”.

Ci possiamo domandare come e dove questo avvenga. C’è la Parola, ci siamo noi che siamo la comparsa di Dio in mezzo agli altri: Gesù Cristo è in noi. Quanti cristiani sono proprio una teofania: li incontri e ti si apre uno spiraglio di luce.

Ma è Dio che preme su questa storia con immensa compassione. È un Padre che ci cerca, non un Dio astratto. E noi oggi possiamo chiedere che tanti sentano di più quanto la responsabilità verso Dio è seria, e come non ci debba incutere paura: è la più seria e la più lieta del mondo. Che l’umanità senta che Dio la chiama: “Dove sei? Torna!”. E’ il padre della parabola, in attesa del ritorno del figlio che si ritrova poverissimo e ha nostalgia di Dio.

Chiediamo in questa Eucaristia – e Maria lo chiede con noi – che molti cuori si aprano a questa frase misteriosa: “Dio c’è, è mio Padre: e se tornassi a casa da Lui?”.