II DOMENICA  DI  PASQUA

At 5, 12-16; Sal 117; Ap 1, 9-11a.12-13.17 –19; Gv 20, 19-31

…e non essere più incredulo, ma credente!

Troviamo in questa celebre pagina del Vangelo una grande lezione di ecclesiologia, cioè di teologia della Chiesa: come si fa a ‘essere’ Chiesa. Noi siamo Chiesa e ci conviene trarne molto frutto.

In questa scena, che comprende due episodi diversi, ma che ci insegnano  la stessa cosa, Gesù dice una volta  per tutte che la sua comunità dovrà sempre escludere un grave difetto umano che Tommaso impersona: l’individualismo. E’ la tendenza, che ciascuno di noi porta in sé, a dare soprattutto importanza a se stesso, in modo da prendere le distanze, rendersi autonomo rispetto alla comunità alla quale appartiene. L’individualismo nelle famiglie quante dolorose brecce scava, quante incomprensioni! E’ ormai un fenomeno così normale, che non ce ne meravigliamo neppure, ma è incompatibile con l’essere Chiesa.

L’individualismo non  deve essere confuso con l’avere una personalità, anzi, il cristiano per natura sua è chiamato ad averla: consapevolezza, libertà, senso di responsabilità, serietà. Ma  c’è una differenza fondamentale: la personalità è aperta, come un fiore spalancato, quindi è fatta apposta per la comunione, invece l’individualismo è chiuso, come una noce da spaccare, quindi è proprio il contrario di ogni possibilità di comunione. Tommaso altro non è che un individualista, cioè è tutti noi. Perché?

La sua  reazione  ai dieci che gli dicono “Abbiamo visto…” non sembra eccessiva.  Hanno visto loro, è logico che voglia vedere anche lui. Che cosa c’è di stonato in questa esigenza? Il fatto che Tommaso dia solo fede a se stesso. “Finché non vedo io, a quello che avete veduto voi non do importanza”. Non sta dicendo: “Voi siete dieci bugiardi”, ma: “Voglio vedere io”. E con questo  atteggiamento pecca contro la comunità cui appartiene, perché non dà fiducia. La mancanza di fede dell’Apostolo non è prima di tutto mancanza di fede in Gesù, ma nei fratelli, che gli annunciano di aver visto, e ai quali egli obietta: “Non  credo”.

Si tratta di una posizione pericolosa. Tommaso  è certamente  un carattere forte.  La sua risposta: “Se non metto la mia mano nel suo costato…” è eccessiva, ma egli rivendica  se stesso. E così si stacca dagli altri discepoli. Ecco perché Gesù lo rimprovera. Quando gli dice: “Smetti di essere incredulo e rimettiti a credere”, Gesù non rileva una mancanza di fede in Lui – perché subito l’Apostolo ha esclamato: “Mio Signore e mio Dio!” -, ma il fatto che, comportandosi così, Tommaso si stacca dalla comunità. Quando accade questo nella Chiesa, il cristiano, anche se ritiene di essere ancora tale, perde la comunione con il Signore.

La questione diventa allora attualissima. Quanti sono i cristiani  che in realtà sono relativamente uniti alla comunità, alla Chiesa, e per il resto si costruiscono un rapporto di fede con Gesù a loro misura? Quanti sono i cristiani che davanti al compito ecclesiale, che è anche magisteriale, oppongono l’obiezione: “Questo nel Vangelo non è scritto, perciò non m’interessa”? E’ un esempio di puro individualismo applicato alla vita ecclesiale. Un cristiano così si isola,  prende le distanze: anche se fossero le parole del Papa in un’Enciclica, se non sono di suo gradimento, non le ritiene credibili.

Un cristianesimo ritagliato su misura è una vera sciagura dal punto di vista spirituale, ed è un difetto permanente, che oggi, per la complessità del tessuto sociale e il forte individualismo, si è molto accentuato:  non si sa mai fino a che punto un cristiano sia davvero tale, fin dove sia disposto a dire: “Se tu hai visto, io credo” – ovviamente a chi merita fede -. Questo Vangelo contiene dunque un richiamo molto importante all’umiltà. Siamo invitati a dar credito a coloro cui dobbiamo darlo, perché Gesù ha voluto così: “Chi ascolta voi ascolta me”.

Troviamo questo principio anche nella prima parte di questa pagina, la più bella, dove Gesù,  comparendo, dà ai suoi l’incarico stupendo: “Abbiate in voi lo Spirito, andate. E a coloro a cui rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi”. Si tratta di un fatto squisitamente comunitario: Gesù non ha affermato: “Andate ad annunciare a tutti che si sentano perdonati e siano felici”, ma con quelle parole ha voluto dire: “La mia misericordia, che è tutta per voi e non aspetta altro che traboccare nella vostra vita per salvarvi, sarà data da uno a un altro”.

E’ così stretta questa regola dell’altro, che il prete, colui che perdona tutti, non può assolvere se stesso. Questo ci spinge a un senso di comunione molto serio, a cui, invece, spesso opponiamo un atteggiamento di difesa. Non sono pochi i cristiani che si comunicano tutti i giorni e si confessano una volta all’anno. Qual è l’origine di questo squilibrio sacramentale?

Comunicarsi è terribilmente facile: chiunque può accostarsi a ricevere la Comunione: nessuno lo trattiene. Invece molti cristiani si ritraggono dalla Confessione; dicono: “Quanto alla mia coscienza, m’intendo direttamente con Dio”. Questo Sacramento è certamente impegnativo; psicologicamente può essere non facile: presentarsi a un uomo come noi sicuramente è un’umiliazione, se non è un atto di fiducia. Ma che cosa importa ciò che sento? Importa che, attraverso la garanzia di un altro, io sappia di essere perdonato. Lo so non in base alle mie convinzioni e ai miei desideri, ma perché mi è stato garantito.

La piaga dell’individualismo impedisce la comunione a tutti i livelli, perciò questo Vangelo contiene un grave monito, che va molto al di là dell’episodio stesso. C’è, però, anche una grande speranza: com’è bello che crediamo in Gesù, crediamo nella Chiesa, perché crediamo gli uni negli altri. La fiducia profonda, l’apertura del cuore, la comunione che non è altro che Amore: questo è il modo in cui Gesù ha inteso la sua comunità.

La beatitudine di credere cresca in noi: “Credo, Gesù. Credo con una fede intelligente, non sarò mai un credulone; mi affido, quando mi pare giusto e ragionevole affidarmi. Non faccio da me, non raccolgo un po’ qui e un po’ là quello che mi pare. Non voglio essere giusto per conto mio, ma confrontarmi con Te. Umilmente vivo di questa forte, bella, cattolica fede”.

Possiamo ridire a Dio “Grazie”, perché ci aiuta a credere così. Di fronte alla stupenda  promessa  di rimettere i peccati, entrando nel clima di questa domenica di misericordia,  possiamo elevare al Padre della misericordia una grande preghiera: che Egli veramente vada a trovare con la sua misericordia coloro che non vanno da lui. Molti hanno paura di Dio, dicono che andranno l’indomani, ma è un domani che non arriva mai. Perciò gli chiediamo: “Vai Tu da loro, da soli non verranno, ma, se Tu vai, ti accoglieranno”.

E’ la preghiera che vi invito a offrire nel vostro cuore in questa Eucaristia, facendola ovviamente passare attraverso la mediazione di Maria, la Madre della Misericordia. Non soltanto per gli altri, ma per noi stessi: che il mondo sia sempre più avvolto dalla misericordia. E’ proprio quello che aspettiamo di vedere, perché questo mondo è troppo sanguinante, è troppo sofferente, e solo il divino unguento della misericordia riuscirà a guarire le sue ferite.

Don Giuseppe Pollano