Nella lingua ebraica, yoseph-’ el, Giuseppe significava «Che Dio aggiunga (altri figli) ». Nome davvero profetico nel caso di Giu seppe di Nazaret, perché a lui solo Dio affidò la custodia del «Figlio aggiunto» all’umanità, il suo Unigenito eterno nato dalla vergine Maria.
Straordinario incarico, evidentemente. Inserire nella storia diquesta terra, nel piccolo ambiente d’un villaggio della Galilea, Colui che veniva come Signore e Salvatore della storia del mondo. È chiaro che un evento come questo richiedeva un uomo eccellente, e portava in più nella sua vita mutamenti insignì.
Di Giuseppe di Nazaret sappiamo poco di ciò che le nostre cronache odierne elencherebbero per presentare un personaggio; sappiamo però, di valore inestimabile, il giudizio divino su di lui, quale ci è proprio oggi riferito dal Vangelo di Matteo: «Giuseppe era giusto». Qualifica suprema, nel mondo d’allora. Non abbiamo un termine corrispondente nelle lingue di oggi, per la semplice ragione che non congiungiamo più, nella valutazione di una persona, dimensione religiosa e storica; ci basta quest’ultima, e peggio per noi.
Ma Giuseppe era giusto davanti a Dio e agli uomini, non essendo poi neppure grande o importante; sappiamo bene che« L’uomo guarda l’ apparenza , il Signore guarda il cuore»; e guardando il cuore di Giuseppe, preparato certo dallo Spirito, Dio gli affidò appunto, praticamente, l’evento di Gesù e della Salvezza. Per questo nella prima Lettura troviamo l’esaltazione profetica di una santa paternità riferita al Messia futuro: «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio».
Padre giuridico a pieno titolo, padre nel cuore con amore tota le, Giuseppe fu il più umile uomo del mondo nel non assumere, su richiesta di Dio, la paternità fisica del figlio di Maria. A Dio non era necessaria per compiere, veramente a modo suo, l’Incarna zione del Figlio grazie allo Spirito. Ma Giuseppe, uomo in pienezza, scelse con cuore acceso di gioia la rivelazione, veramente inaudita: « Non temere di prendere con te Maria … quello che è generato in Lei viene dallo Spirito Santo».
Proviamo a pensarla, questa situazione. In misura di responsabilità. Non fu un dramma affettivo, quello di Giuseppe, fu un dramma religioso perché si trattò per lui di assumere un compito sovrumano nell’umano. Bisognava essere Ebrei santamente vicini a Dio, come egli era, per poter valutare «con timore e tremore» il significato di quel «viene dallo Spirito Santo». Perché l’ebraismo era la religione della trascendenza, del rispetto infinito per il Dio innominabile, della trepidazione davanti al segreto del Tempio, della rete di prescrizioni meticolose e quasi paralizzanti… Ed ecco un figlio, carne ed ossa, occhi che guardano, bocca che parla e ha fame e sete, familiarità che non ha regole fisse, un figlio di Dio da Dio nato.
C’era davvero da «temere» e qui neanche il coraggio umano bastava. ·
Occorsero le virtù forti, quelle che fanno vivere in un altro mo do le solite cose, e prima fra tutte la fede capace di alimentare grandissimo amore. Ecco la grandezza di Giuseppe, quella che ammiriamo e celebriamo oggi.
Egli fu colui che, dopo Maria e al suo fianco, credette più di tutti nella storia degli uomini. Perché il suo rapporto quotidiano, per anni, fu con Dio fatto bimbo, fanciullo, giovane e uomo. Fede d’ogni momento, senza riti né incensi né insegne, fede sufficiente a se stessa, quella che a noi spesso fa difetto. Vedere, sentire, toccare e credere oltre. Contemplare nel silenzio la presenza del mistero. Prima adorare e poi agire anche se il Figlio di Dio lavora l’ nella bottega e impara. E’ sempre amare, perché la dimensione unica della vita, in un caso come questo, è appunto ama e, soltanto con la forza del proprio cuore umano ma per il sottile fuoco dello Spirito di Dio.
Giuseppe divenne se stesso gradatamente e sempre di più, istruito da ciò che credeva. Quella che dovrebbe essere anche per noi la vera strada. Egli, che non era sacerdote addetto al Tempio, apprese dagli occhi stessi di Gesù il segreto della contemplazione, e visse nello stupore indicibile di Dio così vicino.
Anche questo dovrebbe essere un nostro sentimento fondamentale.
Il Dio che sta nel Libro e ancor più è Eucaristia sugli altari e nei tabernacoli. È proprio questo che la Chiesa ha sempre intuito ed ammirato in Giuseppe: l’arte di condividere con Dio presente tutto. Sotto questo aspetto egli assume, davanti alle generazioni, un ruolo pedagogico fondamentale.
Santo del silenzio, non va certo passato sotto silenzio.
Santo dell’umile laboriosità, non va solo pensato come carpentiere.
Santo dell’ultimo posto, non va certo considerato in subordine.
E così via.
La Chiesa illuminata dallo Spirito, ha sempre venerato e venera Giuseppe come modello eccellente dell’esistenza proprio in quanto questa è radicata in Dio ma svolta sulla terra, mistica ma laboriosa, povera ma nobilissima, incerta del tutto fedele responsabile ma completamente affidata. a Dio.
Non meno che tutto ciò poteva darsi nell’uomo a cui il Figlio di Dio avrebbe detto con amore e fiducia pieni: «Abbà, babbo». Perché Dio la sua familiarità non la svende, come facciamo noi, Dio sceglie i cuori a cui intende affidarsi, quelli che nella sua Grazia saranno veramente suoi, nel tanto e nel poco, quelli con cui sa che troverà sempre «a casa».
C’è qui per noi un’imponente lezione.
Il Giuseppe «di tutti i giorni», non soltanto quello dei momenti forti: annuncio dell’angelo, accoglienza di Maria, Betlemme, fuga in Egitto, ritorno a Nazaret… Questi segnano la fedeltà e la coerenza_ dell’uomo in momenti irripetibili, e noi dunque possiamo ammirarli ma non riviverli. Gli altri possiamo invece rivivere, che sono la massima parte, quelli appunto che non sono scritti perché non meritano memoria eppure sono il tessuto della santità dei giorni.
Qui sì, Giuseppe dice delle cose, maestro prezioso di vita. Pensate la considerazione diuturna, tacita e instancabile, dei misteri che egli vive. Giuseppe percepisce che sono misteri vicinissimi, Gesù, Maria, lo spazio e il desco quotidiano, e tuttavia abissali come Disegno di Dio. Vi partecipa con tutto se stesso e però si sente anche affacciato a realtà che lo sovrastano senza schiacciarlo, anzi amandolo. Ma lo sovrastano. Così egli vive, senza sforzo, di considerazione che alimenta la sua fede e regge l’intera esistenza. Che modello per noi, poveri distratti, che abbiamo pure Dio così prossimo, e lo lasciamo sovente a distanze astrali proprio «come non fosse», quando pure anche a noi basterebbe un poco più di considerazione di fede.
Pensiamo alla sua posizione nel mistero che vive. Non ci stupiremo certo di trovarlo umile di umiltà perfetta, e servo, vero ser vo nell’anima, e lieto e riconoscente e pronto, perché sa e vuole vivere di Dio soltanto come gli è stato chiesto. E anche qui, che lezione per noi, tanto spesso malati di protagonismo, pretese, invidie, pigrizie, come se anche la nostra esistenza non fosse servizio a Dio e al prossimo, come non fossimo neppure cristiani.
Pensiamo alla sua serietà nell’essere se stesso davanti a Gesù ea Maria, icone della volontà di Dio; dove serietà è il massimo coinvolgimento di tutto il proprio essere e fare, la tensione magnifica dell’offerta di sé oltre se stessi, affinché possa compiersi qualche cosa di più grande di noi ma che interpella anche noi. Serietà con Dio sinonimo di santità, il nostro destino. E Giuseppe va visto cosi, capolavoro umano di serietà nelle cose che anche tutti noi facciamo e maneggiamo; serio di una serietà che non è poi quella del galantuomo soltanto, né del lavoratore o dell’artista appassionati, ma che scende dall’alto e potenzia cuore e volontà ancora di più, secondo Dio. La serietà cristiana, per noi.
E lasciamo allora sfilare qui, in umile revisione di vita, le nostre leggerezze, latitanze di fronte ai doveri divini e umani, superficialità, disimpegni. Eppure siamo cristiani, e la forza dello Spirito è in noi.
Conviene allora dare a Giuseppe uno sguardo di simpatia forte, che vuole approvarlo, comprenderlo e imitarlo; e un moto del cuore schietto e fiducioso, perché egli nella gloria di Gesù e Maria
è ora potente nel bene, protegge l’intera Chiesa, è amico d’ognuno di noi. L’uomo a cui Dio consegnò il Figlio con piena fiducia, è anche quello che ci aiuta a dire: «Gesù!» come tante volte lui lo disse nella vita.
Grazie. Apprezzo molto. Don Pollano è stato il mio Padre e Maestro di vita.