L’abbandono cristiforme: Lettera 165




La lettera è rivolta a Celina, due mesi prima della sua entrata al Carmelo. Teresa affronta in questa lettera, il tema dell’inabitazione trinitaria nell’opacità della prova, rilevando la presenza divina nell’anima provata. Apre la sua meditazione citando il Cantico dei Cantici: “Sono scesa nel giardino dei noci, per vedere i frutti della valle, per osservare se la vigna fosse fiorita e se i melograni fossero cresciuti. Non ho più saputo dove fossi… la mia anima era stata sconvolta a causa dei carri di Aminadab”. “Ecco l’immagine delle nostre anime provate”, prosegue Teresa; “noi scendiamo di sovente nei vasti campi delle scritture, ma ci sembra di essere in un deserto arido senz’acqua”. Esplicita poi la natura di questa aridità citando ancora il Cantico dei Cantici: “Noi non sappiamo più neppure dove siamo: nel luogo della pace, della luce, non troviamo che il turbamento o quanto meno le tenebre”.

Celina, poco prima la sua entrata al Carmelo. 1984.



Ma aggiunge, “noi sappiamo la causa della nostra prova.” Lo stato di turbamento e di tenebre della condizione umana è causato dallo spirito del male, “i carri di Aminadab”. Infine una sottolineatura essenziale: “se noi non sappiamo più neanche dove siamo”, sembrando quasi errare nella tribolazione e desolazione interiore, Gesù “lo sa bene”, conosce la nostra indigenza, e rincorrendoci ci chiama: “Ritorna, ritorna, o mia Sulamita, ritorna, ritorna, affinché possiamo ammirarti”.

Queste ultime parole sono di capitale importanza: la certezza di essere “guardati” da Dio, che nel suo Verbo ha assunto la fragilità della condizione umana, questa garanzia di essere “considerati” da Dio nella prova, dà libero slancio verso le vette della fede e della speranza. Nel momento in cui siamo senza alcuna attrazione, diventiamo oggetto della sollecitudine divina.


Ma c’è di più, Teresa, attenta scrutatrice delle scritture, nota il plurale della Trinità con cui Gesù si avvicina alle anime: “ritorna affinché ti possiamo ammirare”. Non solo Gesù ma tutta la Santissima Trinità. Gesù “ci chiama, vuole osservarci a suo piacimento, ma non è solo: con Lui le altre due persone della Santissima Trinità vengono a prendere possesso della nostra anima”.

Teresa qui ricorre al nuovo testamento, un testo fondamentale per il tema dell’inabitazione trinitaria mistica: “Gesù l’aveva promesso un tempo, quando stava per risalire verso il Padre suo e Padre nostro. Diceva con ineffabile tenerezza: “ Se qualcuno mi ama, custodirà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora”. Custodire la parola è la sola condizione “della nostra felicità, la prova del nostro amore per Lui”. Per Teresa non c’è alcun dubbio, custodire la parola di Gesù è “custodire Gesù” in se stessi, perché la parola di Gesù “è Lui stesso…Lui, Gesù, il Verbo, la Parola di Dio”.

Il cuore della spiritualità di Teresa è tutto qui, con tutta la sua forza, il suo attaccamento a Gesù. La sua via è essenzialmente Cristocentrica. E’ evidente il suo rapporto con il mistero della Trinità, ma per una inclinazione affettiva e cognoscitiva il suo rapporto è preferibilmente con Gesù. Conservare e custodire la parola di Gesù che attira il Padre e lo Spirito Santo, è prima di tutto custodire Gesù nel suo cuore; nel mistero trinitario traspare la tensione cristocentrica: “Noi la possediamo la Verità. Noi custodiamo Gesù nei nostri cuori”.

La lettera prosegue citando ancora il Cantico dei Cantici mentre tocca il tema della sofferenza: “il mio diletto è un mazzetto di mirra”, e soprattutto “Gesù è per noi uno sposo di sangue”. La conseguenza di questa unione sponsale, marcata dalla sofferenza, è “conservare Gesù nel cuore” esprimendogli fedeltà nella prova, vivendola con Lui e in Lui. Del resto, forte dell’esperienza familiare del padre, sa che Gesù soffre in noi e con noi coinvolgendoci nella prova che è Sua, prima di essere nostra. Cita così S. Luca. “Voi siete rimasti costantemente con me in tutte le prove che ho avute”.

Dopo la prima rivelazione ricevuta, cioè l’inabitazione trinitaria che consiste nel “conservare la parola di Gesù”, ora resta

“Io dormo ma il mio cuore veglia. Abbandono”

impressionata “dalle prove di Gesù, che mistero!” Applica al Capo le prove del Corpo; le tribolazioni dei cristiani riguardano fondamentalmente il Cristo in prima persona. “Ha dunque delle prove, anche Lui?”, si chiede Teresa, “Sì, afferma, ne ha e spesso è solo a pigiare il vino nel torchio. Cerca consolatori e non può trovarne.”


Qui la Santa introduce il tema della compassione affettiva. Teresa sa intimamente che Gesù agisce nella complessità delle prove umane, che le prove sono il luogo privilegiato di una unione affettiva con Lui e che nell’attualità dell’esistenza umana, Gesù soffre per non trovare consolatori; tuttavia Teresa crede fermamente che nella sua prova Gesù c’è ed è presente come “consolatore”. Come il Padre ha preparato il regno per suo figlio, facendogli attraversare l’oscura prova della passione e della croce, così “ci prepara il suo regno, lasciandoci nella prova”. Come Lui, “Gesù vuole che il nostro viso sia visto dalle creature, ma che sia nascosto, affinché nessuno ci riconosca, al di fuori di Lui!” Dunque dice, il viso delle discepole-spose di Gesù, deve essere così nascosto nel Volto del loro Maestro-Sposo che, guardandole, le creature abbiano a riconoscere Gesù solo.

La riflessione di Teresa si arricchisce di elementi nuovi. Essa vuole vivere in sinergia con il mistero pasquale, vista la com-passione divina che si piega sulla miseria in cui l’anima può piombare: “Ma quale felicità pensare che il buon Dio, che la Trinità tutta intera ci guarda, che è in noi e che si compiace di guardarci”. La coscienza viva dello sguardo della “Trinità tutta intera” su di noi, della sua presenza “in noi” che “si compiace di guardarci”, deve essere la sorgente di un indistruttibile conforto.

Nonostante l’anima sia in uno stato di totale impotenza, Teresa afferma (citando il Salmo 136, 2): “Da molto tempo le nostre arpe sono appese ai salici della riva: noi non sapremmo servircene! Il nostro Dio, l’ospite della nostra anima, lo sa bene”.


Qui vi è un tratto folgorante della sua dottrina: ella porta alle estreme conseguenze spirituali il mistero dell’inabitazione di Dio Trinità, precisando le condizioni dell’invasione divina: “…Così viene in noi nell’intento di trovare una dimora, una tenda vuota in mezzo al campo di battaglia della terra.
Non chiede che questo, lui stesso è il Musicista Divino che si incarica del concerto”
. Teresa pone la pietra angolare per un’autentica trasformazione cristocentrica, per l’accoglienza della grazia dell’unione profonda dell’anima con Dio: un vuoto interiore accettato in una sincera e ferma apertura a Dio. Dio sa bene l’impotenza dell’anima.

Ci troviamo davanti a un brano magisteriale della sua piccola via: il riconoscere e accettare serenamente, pieni di fiducia e speranza teologale, il proprio nulla o la propria povertà personale. “Dio viene in noi” non “per trovare una dimora” piena dei “nostri canti” ma, insiste Teresa, nell’intento di trovare una tenda “vuota”; vuota in “mezzo ai campi di battaglia”: la prova di un non sentire interiore.

Teresa termina la sua riflessione teologica, annunciando l’attitudine essenziale per offrire nella sua persona “un paradiso di delizie” al “Re dei re”: “noi non dobbiamo fare altro che consegnare la nostra anima abbandonata al nostro grande Dio”. Ecco ciò che riassume tutto: abbandono, abbandono alla misericordia Divina.

Siamo giunti alla fine di questa lettera-faro dell’ interiorità di Teresa. Ricapitoliamo le scoperte: l’insistenza sull’inabitazione trinitaria custodendo Gesù nelle prove, insegnandoci così la piccola via, la cui condizione essenziale è l’abbandono alla presenza di Dio infinitamente vicino e accondiscendente, riguardo la deficienza radicale e la povertà interiore del proprio cammino spirituale. Si chiarisce maggiormente l’avanzamento spirituale del cammino teresiano, nella comprensione del mistero del Volto Santo di Gesù, duramente provato dalla passione, bisognoso di Veroniche che lo consolino abbandonandosi interamente a Lui.




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